Pubblicato sull’American Journal of Cardiology uno studio italiano coordinato dal professor Alberto Palazzuoli, responsabile dell’UOSA Malattie Cardiovascolari del Dipartimento di Scienze Mediche, diretto dal professor Bruno Frediani dell’Aou Senese, che ha rilevato come la applicazione di uno score di rischio generalmente usato per i pazienti affetti da una comune aritmia cardiaca, la fibrillazione atriale, sia in grado di stratificare il rischio dei pazienti ospedalizzati per polmonite da coronavirus.
«Lo studio – spiega il professor Palazzuoli – ha analizzato in modo retrospettivo 960 pazienti provenienti da diversi ospedali italiani durante la fase di lock down, nel periodo marzo-aprile 2020. La ricerca, che si è avvalsa dei dati di un registro osservazionale italiano denominato CORACLE, ha arruolato pazienti provenienti da Toscana, Piemonte, Lombardia e Lazio ed ha dimostrato come uno score tradizionalmente usato per identificare i pazienti con elevato rischio tromboembolico, meglio noto come CHADs-VASC, sia in grado di prevedere con un’ottima accuratezza il rischio di mortalità durante la fase di ospedalizzazione. Il semplice calcolo numerico della presenza di alcuni fattori predisponenti – prosegue Palazzuoli – quali l’età sopra i 65anni, sesso, ipertensione, diabete, storia di cardiopatia ischemica, ATS generalizzata, cioè sindrome da tortuosità delle arterie, ed insufficienza cardiaca, ha permesso di stabilire che i soggetti con un valore intermedio ed elevato erano più suscettibili di prognosi sfavorevole. L’idea di applicare questo algoritmo di rischio embolico sui pazienti con infezione COVID19 – conclude Palazzuoli – è nata dal presupposto che i soggetti infettati costretti a letto vanno incontro sia a complicanze respiratorie, che ad eventi trombotici vascolari quali coagulazione intravascolare disseminata ed embolia polmonare. Da questa osservazione clinica e fisiopatologica, è scaturito il disegno dello studio che ha applicato un algoritmo noto agli specialisti e fruibile a tutti gli operatori sanitari, con lo scopo di riconoscere già ad un primo esame clinico quei soggetti con una prognosi più infausta e con un rischio aumentato».
Nel lavoro pubblicato sull’autorevole rivista americana American Journal of Cardiology, viene poi spiegato come l’applicazione di questo protocollo a tutti i pazienti ospedalizzati possa avere delle ripercussioni terapeutiche grazie all’uso di farmaci anticoagulanti come l’eparina in grado di prevenire gli eventi tromboembolici associati all’infezione a livello della circolazione polmonare e quindi di poter ridurre la mortalità dei soggetti colpiti.