Dopo l’esperienza di un clown di corsia e della terapia del sorriso, pubblichiamo un’altra storia tratta dal progetto ‘Love Project’, ideato dal senese Niccolò Innocenti, che è molto seguito sui social, soprattutto Instagram e Tik-Tok. Questa volta il racconto verte sul mondo delle dipendenze e delle comunità di recupero.
“Più andavo avanti e più mi piaceva, fino a che non sono arrivato a bermi il collutorio perché non avevo più nulla da bere in casa”.
“Questa è semplicemente una delle tante frasi che abbiamo ascoltato durante i due giorni passati all’interno di Dianova, una comunità di recupero per persone con dipendenze, situata a Palombara Sabina, fuori Roma. Siamo arrivati convinti di trovare una realtà anomala, come se lì dentro ci fosse qualcosa da osservare a debita distanza. Invece è successo qualcosa che non avevamo previsto”.
“Quarantotto ore sono bastate per farci capire quanto dolore c’è nelle storie di queste persone, ma la domanda che ci siamo fatti prima di varcare il cancello della comunità è stata: siamo davvero pronti a mostrare la vera anima di persone che spesso vengono mal giudicate?
“Mio padre beveva” – ci dice Benedetto. “Ritornava a casa sempre ubriaco e metteva le mani addosso a mia madre.” “I miei genitori erano due tossicodipendenti” – ci confessa Damiano. “Quando è morta mia nonna, l’unica che mi abbia mai amato veramente e che voleva proteggermi, sono caduto nel baratro anche io”.
“Ci sono bastate queste due testimonianze per capire come spesso e volentieri, l’abuso di alcol faccia da specchio rispetto a ciò che ci viene mostrato fin da piccoli, complice anche una ricerca di affetto e di amore mai ricevuto, o forse avuto in maniera non sufficiente. Esempi che lasciano un segno nell’anima, ma che a volte spingono le persone nella direzione opposta, come ci afferma Marika, un’educatrice di Dianova da ormai tre anni: “Cresco con un papà tossicodipendente, l’ho aiutato a superare questo problema e l’intento, dopo aver completato gli studi, era entrare in comunità e salvare tutti” – sorride lei. “Ma questo è un lavoro impossibile” – continua – “perchè non puoi avere la presunzione di salvare tutti, se l’altro non è disposto a essere salvato”.
“Durante questi due giorni abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare tante storie, tutte accomunate da un filo rosso ben distinto: la ricerca perpetua di affetto, di due orecchie per essere ascoltati e di un cuore per essere capiti. Chi sta facendo il percorso di recupero è frenato però da una paura tremenda, che accomuna tutte le persone del mondo: il giudizio”.
“La prima volta che sono andato a riprendere a scuola mia figlia, dopo otto mesi che mancavo da casa, solo due o tre persone mi salutarono, le altre fecero finta di non sentire il mio saluto” – ci confida Francesco, che continua con una riflessione profonda. “Il giudizio degli altri ci sarà sempre, saremo sempre visti come quelli che hanno vissuto la comunità, sta a te non dare a queste persone il potere di starti a colpire”.
Durante questi due giorni passati assieme a loro ci siamo sentiti accolti, ascoltati, visti. Abbiamo parlato con persone normali. Proprio così: normali. Con una storia difficile alle spalle, ma anche con una voglia di vivere e una gentilezza che fuori non si trova. Il pregiudizio che anche noi, appena entrati, avevamo, è come una giacca pesante messa per abitudine: ce l’hai e spesso non te ne accorgi nemmeno.
Abbiamo compreso che spesso incolliamo l’etichetta del problema sulla pelle di chi ci sta davanti, e non riusciamo più a vederlo per ciò che è: una persona intera, bella e complessa. Come se la persona fosse solo la sua dipendenza. Così facendo ci perdiamo il suo nome, la sua voce, il suo sguardo, ci perdiamo un essere umano prezioso. Questa è la più grande lezione imparata in questa avventura”.
