Il ministero del tesoro vende il 25% della sua partecipazione nel Monte dei Paschi e scende dal 64,23% al 39,23% circa del capitale sociale portando 920 milioni di risorse fresche nelle casse dello Stato.
Lo ha comunicato lo stesso dicastero, spiegando che si tratta della prima fase della vendita dell’istituto. Il Mef si è comunque impegnato a non effettuare altre cessioni per 90 giorni dopo la vendita di 315 milioni di azioni ordinarie riservata ai cosiddetti investitori istituzionali, come banche, assicurazioni e fondi di investimento.
Un’operazione che ha generato il crollo in borsa del titolo del Monte dei Paschi dopo le performance di crescita registrate ieri. Un’operazione, soprattutto, che ha riportato di forte attualità il capitolo delle possibili future nozze della banca.
All’orizzonte sembra così svanire il progetto stand alone. Le condizioni per le fusioni e acquisizioni stanno migliorando, sia sul fronte legale sia per il collocamento di ieri, che, secondo gli analisti, favorisce le fusioni e acquisizioni con operatori di dimensioni simili. Il governo starebbe strizzando l’occhio a Banco Bpm che, dal canto suo, ha sempre respinto ogni notizia sul suo potenziale interesse per Rocca Salimbeni. Il Governo potrebbe ora cercare di guadagnare tempo e chiedere un rinvio al 2025 per dismettere la quota residua del 39%. Mentre da più parti, compresi alcuni sindacati, si tira la giacchetta alle fondazioni di origini bancaria per un nuovo intervento dopo il precedente della ricapitalizzazione di un anno fa.
La storia dello Stato azionista della banca senese potrebbe avviarsi definitivamente alla conclusione. Una storia iniziata nel 2017, quando, dopo varie operazioni di risanamento, il ministero dell’Economia è arrivato a detenerne il 64,23 per cento delle azioni grazie anche alla deroga alle regole europee sulla concorrenza. In 6 anni in diverse occasioni sono iniziate trattative con banche private per la vendita. L’ultima in ordine cronologico nel 2021 con Unicredit; nozze però neanche arrivate alle partecipazioni perché Unicredit chiedeva che lo Stato mettesse ancora soldi nella banca per risanarla e soprattutto perché chiedeva una dote di prezzo troppo alta per poter essere sostenuta. Per una banca che è già costata allo Stato, e quindi ai cittadini, oltre 8 miliardi di euro a fronte dei 920 milioni incassati ieri con la vendita del 25% del capitale.